Consent phishing: cos’è e come difendersi

Consent-Phishing
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Consent phishing: ecco come i cybercriminali utilizzano le autorizzazioni OAuth 2.0 per ingannare gli utenti.

Ad oggi il phishing è la tecnica di maggior successo, e quindi più diffusa, per aggirare la sicurezza. Una delle ragioni di questo successo è la capacità dei criminali informatici di elaborare nuovi modi nell’utilizzare questa tecnica, come il consent phishing.

Che cos’è il consent phishing?

Il consent phishing è un tipo di attacco informatico in cui l’utente, oltre ad essere vittima, è in qualche modo anche protagonista.

Si basa su apposite app cloud, che girano su server remoti. Le applicazioni di produttività online, come Google Workspace o Microsoft 365, ad esempio, non sono altro che dei pacchetti contenenti numerose app complesse che girano in cloud.

Per comprendere il phishing del consenso, è necessario conoscere i meccanismi su cui si basa, ovvero:

  • La voglia dell’utente di fare clic
  • Il protocollo OAuth 2.0

Il consenso all’accesso e alla condivisione delle caselle di dati fa parte della metodologia fondamentale utilizzata da un’ampia gamma di app consumer e aziendali, da Google a Facebook, Office 365 e tanti altri. Dietro la casella del consenso si trova il protocollo standard OAuth 2.0.

OAuth 2.0

Si tratta di un protocollo di autorizzazione ed un importante standard industriale. Semplifica il processo di accesso all’interno e tra siti Web, app online e app mobili; OAuth 2.0 supporta il Single Sign On (SSO) per consentire un utilizzo senza interruzioni delle app.

Milioni di siti Web e app si affidano a questo protocollo. Quando una persona effettua l’accesso per accedere a un sito Web o a un’app, questo viene in genere gestito utilizzando uno scambio di autorizzazioni OAuth 2.0: dopo l’accesso e il consenso dell’utente, il provider emette un token di accesso utilizzato dall’RP per accedere ai dati che l’utente ha acconsentito a condividere, che può essere anche un indirizzo e-mail o l’accesso a documenti, ecc.

Ecco un esempio di casella di consenso OAuth 2.0:

In che modo il consenso dell’utente facilita il phishing

Il problema con questo scambio OAuth 2.0 è che chiunque può potenzialmente registrare un’app dannosa (RP) con il provider. Ciò apre le porte ai criminali informatici per sfruttare un legittimo scambio di autorizzazioni OAuth 2.0.

Tutto parte, quasi sempre, da una e-mail. Nel messaggio, di solito, un collega ci invita ad accedere al nostro spazio cloud per scaricare o visionare un file.

L’e-mail contiene il link ad una piattaforma online nota, come Microsoft Online o Google, ma poi porta ad una schermata tramite la quale l’utente autorizza l’app cloud malevola ad accedere ai propri dati.

A differenza del phishing classico, quindi, il consent phishing non passa da una pagina Web contraffatta: l’app pericolosa usa, infatti, le piattaforme online legittime e ritenute sicure dagli utenti che, di conseguenza, si fidano. Questo perché, anche se si controlla l’URL al quale punta il link, troverà indirizzi che iniziano con “https://login.microsoftonline.com” o “https://accounts.google.com”.

Riconoscere il consent phishing, quindi, è molto più difficile rispetto al phishing classico.

Come difendersi da questo tipo di attacco

La prevenzione di attacchi intelligenti come il consent phishing non è facile. Oltre alla soluzione completa che Microsoft offre per combatterne l’aumento, è necessario adottare una serie di misure preventive.

Rilevamento di app dannose

I broker di sicurezza delle app cloud possono essere utilizzati anche per controllare le app connesse a OAuth 2.0 rilevando l’attività delle app dannose. Questi servizi basati su cloud forniscono visibilità sulle app connesse all’interno di un’azienda, monitorando l’attività e cercando comportamenti anomali.

Autorizza le app e utilizza criteri di consenso graduali

All’interno di un contesto aziendale, è possibile impostare una whitelist di app attendibili in modo che il consenso possa essere concesso solo alle app di sviluppatori interni o editori noti e attendibili. Microsoft Azure Active Directory può essere usato per applicare i criteri di consenso.

Consapevolezza della sicurezza di app e consenso

La formazione sia dei dipendenti che degli amministratori sulle tattiche di phishing del consenso dovrebbe essere incorporata nella formazione generale sulla sicurezza, per aiutare a prevenire gli attacchi.

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Autenticazione a 2 fattori (2FA): cos’è e perché è così importante

Autenticazione a 2 fattori
Autenticazione a 2 fattori

L’autenticazione a 2 fattori (2FA), a volte indicata come verifica in due passaggi, è un processo di sicurezza in cui gli utenti forniscono due diversi fattori di autenticazione per verificare sé stessi.

Si tratta di un passo davvero importante per aumentare la protezione di aziende e utenti.

Per questo motivo consigliamo di utilizzarla per account di “alto valore” e di posta elettronica, poiché l’email fornisce ai criminali informatici un percorso per reimpostare le password su altri account.

Perché usare l’autenticazione a 2 fattori?

Questo processo è necessario per aumentare la sicurezza informatica in merito all’accesso su account e servizi online. Le password da sole, infatti, forniscono una protezione debole perché possono essere indovinate e, una volta rubate, provate nella speranza di poter accedere.

Non solo i singoli utenti, ma anche i dipendenti, per ricordare tutte le password, ne scelgono di semplici che, nel peggiore dei casi, possono essere facilmente indovinate. Inoltre, le riutilizzano su più account di lavoro.

Le password possono anche essere reperite tramite il phishing: questo tipologia di attacchi sta diventando sempre più sofisticata e quindi difficile da individuare. Un’e-mail può sembrare proveniente da un fornitore di servizi legittimo, come una banca, ma quando l’utente inconsapevole clicca su un collegamento potrebbe essere indirizzato ad un sito falso. Se vengono inserite le informazioni richieste, il criminale informatico è in grado di riutilizzare le credenziali sul sito del fornitore di servizi effettivo per accedere all’account dell’utente.

In cosa consiste la 2FA

L’autenticazione a due fattori rafforza l’autenticazione perché aggiunge un altro fattore:

  • un passcode o una chiave di sicurezza usa e getta (qualcosa che l’utente ha)
  • un attributo fisico univoco come un’impronta digitale (qualcosa che l’utente è)
  • un nome utente e parola d’ordine (qualcosa che l’utente sa).

In questo modo, il sistema è protetto da due livelli di sicurezza invece di uno e si riduce il rischio di accessi non autorizzati.

L’umile password, la linea principale di difesa online utilizzata per tantissimo tempo, è mal equipaggiata per affrontare la gamma di minacce moderne e più sofisticate.

Solo attraverso una più ampia comprensione e implementazione di forme di autenticazione più solide, gli account, i servizi e le applicazioni aziendali e dei consumatori possono ottenere i livelli di protezione più elevati che meritano.

Differenze tra l’autenticazione a due fattori e la verifica in due passaggi

La verifica in due passaggi (2SV) è simile alla 2FA, ma può utilizzare due fattori simili, appartenenti alla stessa categoria. Ad esempio, la maggior parte degli account e delle app richiede una verifica in due passaggi che comprende l’inserimento di una password e, durante il secondo passaggio, di un ulteriore codice di sicurezza. Questo codice può essere un dato alfanumerico inviato per SMS, email o app (ad esempio Google Authenticator) o un codice QR. Spesso i codici hanno una scadenza, il che significa che il secondo passaggio della verifica deve essere completato entro un breve periodo di tempo.

Tuttavia, il secondo elemento utilizzato nella verifica è pur sempre un codice e non un dispositivo o un dato biometrico. Proprio per questo motivo la verifica in due passaggi non deve essere confusa con l’autenticazione a due fattori.

Entrambi i metodi sono più sicuri rispetto all’autenticazione lineare, ma il secondo lo è molto di più.

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Attacco hacker alla Regione Lazio: l’importanza della Cybersecurity

attacco hacker regione lazio
attacco hacker regione lazio

L’attacco hacker alla Regione Lazio ha causato un blocco totale senza precedenti: ecco perché è fondamentale avere un’infrastruttura adatta e protetta.

Dopo aver carpito le credenziali di un amministratore di sistema di alto livello della Regione Lazio, l’attacco hacker ha portato delle conseguenze pressoché disastrose. Al punto tale da paralizzare non solo il settore sanitario — e quindi le prenotazioni per i vaccini (ma anche per qualsiasi visita medica) e la stessa campagna vaccinale — ma tutte le attività della Regione.

Come i cybercriminali sono riusciti a bucare la rete

Recentemente si è scoperto che a tenere aperto il computer del dipendente regionale di Frosinone in smart working sarebbe stato il figlio durante la notte.

Stando a quando ricostruito dagli investigatori, i criminali hanno quindi carpito ed utilizzato le sue credenziali per entrare nel sistema della Regione.

Hanno poi usato un software chiamato Emotet, una sorta di cavallo di Troia che ha creato una breccia e gli ha dato il pieno controllo del sistema per eseguire operazioni più profonde. A questo punto tutto era pronto per il passaggio finale, ovvero l’inserimento del ransomware, il programma che ha criptato i dati, anche lo stesso backup. Per poi chiedere un sostanzioso riscatto.

In cosa consiste il ransomware

Questo tipo di procedura ricalca un copione ormai consolidato, favorita però dall’assenza di un sistema di autenticazione a due fattori da parte del dipendente. Si tratta infatti di una doppia misura di sicurezza, che oltre a username e password chiede un secondo modo per confermare la propria identità, come per esempio un sms sul telefono o un’app che rilascia un codice.

Dopo essere riusciti ad entrare nel sistema, i criminali informatici bloccano l’accesso ai file e ai dati degli utenti e chiedono il pagamento di un riscatto in bitcoin per renderli nuovamente accessibili. In caso contrario l’intero sistema rimane inutilizzabile. Nonostante si riesca a eradicare il virus prima del ripristino dell’attività, non si è sicuri che basti a far tornare tutto come prima.

Negli ultimi tre anni i ransomware hanno avuto un’impennata in tutto il mondo: sono silenziosi, efficaci e molto remunerativi. Ci si accorge della crittazione solo quando tutto è ormai perduto e in genere le vittime, principalmente le aziende, pagano. In caso contrario i criminali minacciano di rendere pubblici alcuni dei dati che hanno criptato, tra cui dati sensibili dei clienti, brevetti e progetti in sviluppo.

Non eliminare lo smart working, ma implementare la sicurezza

Il Messaggero, nell’edizione romana, parlando dell’attacco hacker alla regione Lazio ha riportato un’inverosimile soluzione per risolvere il problema in futuro: l’indiscrezione è quella che la regione starebbe richiamando in sede tutti i dipendenti e gli addetti ai sistemi informatici per procedere a ulteriori verifiche sui dispositivi in loro possesso. Sostenendo che in qualche modo lo smart working abbia contribuito alla buona riuscita dell’attacco.

In realtà lo smart working e gli attacchi hacker non sono due realtà necessariamente collegate tra loro. Questi ultimi, infatti, avvengono continuamente anche sui dispositivi interni alle aziende.

La vera sfida sta nel respingerli ed avere una infrastruttura adatta e protetta che faccia sì che nessuno possa intrufolarsi nei sistemi aziendali.

Quando si lavora in remoto, le attenzioni sono le stesse che bisogna avere quando si lavora in ufficio:

  • impostare password complesse su router e rete wi-fi
  • creare regolarmente una copia di backup dei dati importanti
  • lavorare su dispositivi forniti dall’azienda
  • aggiornare i sistemi e il software
  • prevedere un’adeguata formazione dei dipendenti

Una delle tecniche più usate per infettare i computer con i ransomware è infatti l’ingegneria sociale. È importante perciò informarsi (e, nel caso delle aziende, informare tutti i dipendenti) su come si possano rilevare i malspam, i siti web sospetti e gli altri potenziali tranelli. E soprattutto, usare il buon senso.

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